Sogni di coppe e di campioni
Lo stadio Palmintelli è a meno di un chilometro da casa mia.
Chiamarlo stadio mi è sempre costato fatica.
Il Palmintelli in effetti era il campo sportivo.
Gli stadi erano ben altra cosa per me: gli stadi erano questi giganteschi monumenti dell’uomo, capaci di contenere tutti gli abitanti di Caltanissetta e San cataldo messiassieme, dentro al quale si trovava un campo totalmente verde, immenso e circondato da una pista d’atletica e visibile solo alla TV.
Il Palmintelli no. Il Palmintelli era reale
Il Palmintelli era (e forse è) una vecchia costruzione della fine degli anni venti a ridosso del tribunale di Caltanissetta, distrutta e ricostruita diverse volte, me sempre con materiali, poveri e scadenti, se è vero che da quando me lo ricordo io e se lo ricorda mio padre, è sempre stato decadente.
Tuttora, se allunghi la mano verso qualsiasi punto dei muri di cinta, ti puoi portare a casa senza fatica un pezzo, di questa inusitata opera dell’uomo.
Al centro del Palmintelli si trova un campo di calcio in terra battuta (l’erba in questa parte della Sicilia, non sappiamo neanche cosa sia), tanto che come in una singolare rappresentazione mitologica, i calciatori sono circondati da un’aurea di polvere, dalle scarpe in su, che direste soprannaturale, per tutta la durata della partita
La prima volta che andai al Palmintelli avrò avuto sei anni: si giocava la Coppa Amicizia, un torneo di corporazioni, dove gli impiegati delle Poste sfidavano quelli della Polizia, quelli dell’Enel i dipendenti della Provincia… e così via…
Ci sono padri che portano i figli a vedere per la prima volta una partita importante, mio padre mi portò a vedere la Coppa Amicizia.
Si respirava un’aria particolare, per me bambino, come se qualcosa di veramente grosso dovesse succedere da un momento all’altro, anche se si giocava solo la Coppa Amicizia.
Probabilmente, avrei potuto pensare, sarebbe potuta partire la Rivoluzione dal Palmintelli, tanta era l’agitazione, l’esaltazione di animi, l’aria sediziosa e virile che se ne respirava.
Crebbi.
Scoprii che esisteva una squadra di calcio nella mia città: la Nissa.
Per vedere la Nissa bisognava pagare; ed allora imparai prima ad arrampicarmi su di un albero sulla Montagnola sopra lo stadio, presa d’assalto da parassiti come me muniti di radiolina.
Poi a chiedere agli sconosciuti il permesso di fingermi figlio loro, per entrare gratis.
Negli anni a seguire, mio padre capì e mi dava i soldi per entrare.
Il calcio ha dietro tutto un feticismo che non si può spiegare.
Conservavo religiosamente (e ne conservo vivido nella memoria il ricordo) tutti i biglietti delle partite, la sciarpa, i nomi dei giocatori, gli articoli che scrivevo come immaginario inviato sportivo.
Era tutto una visione, un rito, una magia.
Il campionato 1982/83 finì male.
Retrocessi e poi ripescati, ma dalla memoria recupero i nomi di alcuni giocatori, come di divinità greche, stagliatesi nella mia memoria, ad imperituro ricordo di emozioni, colori e sapori che non proverò più: Morreale, Tomaselli, Puma, Indelicato, Mormile, Moscatiello, il bomber Castellucci erano per me l’equivalente di Paul Newman o Robert Redford.
Se ne incontravo uno per strada tremavo.
E poi la vittoria del campionato di Interregionale.
I 3 anni tribolatissimi in Serie C2.
Andavo al Campo Sportivo con un’ora d’anticipo.
Uscivo di casa prima della frutta, sciarpa al collo e tutta l’urgenza di chi ha qualcosa di davvero importante da fare.
Tante volte trovavo lo Stadio chiuso tanto era presto.
Altre volte non incontravo neanche una persona nel mio tragitto fino all’entrata della Gradinata, perché chi cazzo volete incontrare alle 2 del pomeriggio di una normale domenica di paese?
Eppure sognavo.
Quelle volte che arrivavo un po’ in ritardo e sentivo da lontano i cori dello Stadio, mi salivano i brividi a fior di pelle e prendevo a correre, per ridurre il tempo di assenza dalla bolgia infernale, da quel rito immensamente, maschile, romantico e nevrotico che è il calcio.
E poi fremevo.
Fremevo nell’attesa dell’entrata in campo delle squadre.
Fremevo quando vedevo la sagoma del capitano e l’arbitro uscire dagli spogliatoi.
Fremevo quando partiva il primo fumogeno e tutti ci si bardava la bocca, in preda ad un odore pestilenziale e meraviglioso.
Fremevo quando vedevo le squadre allineate a metà campo e dopo il fischio salutare la curva.
Ritualità e teatro.
Il calcio era rito e rappresentazione ecumenica di quello che nelle platee accademiche potrebbe chiamarsi Storia.
Fremevo e fumavo.
Si, fumavo le Marlboro, i sigari esalati dalle mani delle altre persone, come se fossi io ad averli tra le mani.
La sigaretta non è sigaretta, come lo è allo Stadio: allo Stadio la sigaretta è Wagner, poesia, amore, jazz.
Tutto è mito e tu sei il più stupido puntino dell’Universo, parte però di quella massa di gente informe e solidale che è la Curva.
La Curva da noi non esisteva.
Il Palmintelli è un rettangolo, da un lato addossato, come dicevo, al tribunale, da un altro lato con una piccola tribunetta di tre file chiamata Prato (chiamare prato tre gradini di pietra vi fa intendere la confusione semantica che esiste nell’entroterra siciliano a riguardo di tutto ciò che è vegetazione…).
Il tifo organizzato allora stava nella gradinata.
7 file di gradini di pietra, parallele al lato lungo del campo di gioco e di fronte alla tribuna.
Le Brigate Gradinata si chiamavano.
Oggi fa ridere, ma era una cosa maledettamente seria all’epoca.
Per me poi che avevo 10/11 anni… sarei morto per le Brigate Gradinata.
Ecco: le immagini sporche che mi riaffiorano tra i capelli, come il sebo abbondante che mi riempie la cute stressata di adesso (brutta immagine lo so…) sono potenzialmente infinite.
Il calcio è cresciuto, il calcio è cambiato… si potrebbero dare mille argomentazioni, tutte allo stesso modo giuste, tutte allo stesso modo sbagliate, per condannare questo fenomeno, marcio, malato, corrotto.
Ma pensare di chiudere, pensare di chiudere gli stadi, di chiudere il campionato, di chiudere quel mondo che in maniera disperata si aggrappa a piccoli sogni, di eroi in mutande, di adolescenti patinati e di speranze da coltivare, è come pensare di chiudere la vita.
Il calcio, in questi 100 anni è stato molto di più che un semplice sport.
Per molti è stato una casa, per altri uno spazio di libertà, per altri ancora l’unico modo per sentirsi parte di qualcosa che non fosse la tremenda solitudine delle periferie di oggi.
Non condannatelo appieno.
Non affrettatevi a giudicarlo ed a dargli l’estrema unzione.
Il calcio, per quanto marcio e lontano, fa parte della mia vita e della vostra società e gli stadi, per quanto ricettacoli di teste di cazzo, sono pieni di centinaia di migliaia di persone, che altro non vogliono se non abbracciare uno sconosciuto al novantesimo di una partita apparentemente irrimediabilmente perduta, provando per lui e per tutto ciò che lo circonda altro che non può non definirsi in altro modo se non: Amore.
Chiamarlo stadio mi è sempre costato fatica.
Il Palmintelli in effetti era il campo sportivo.
Gli stadi erano ben altra cosa per me: gli stadi erano questi giganteschi monumenti dell’uomo, capaci di contenere tutti gli abitanti di Caltanissetta e San cataldo messiassieme, dentro al quale si trovava un campo totalmente verde, immenso e circondato da una pista d’atletica e visibile solo alla TV.
Il Palmintelli no. Il Palmintelli era reale
Il Palmintelli era (e forse è) una vecchia costruzione della fine degli anni venti a ridosso del tribunale di Caltanissetta, distrutta e ricostruita diverse volte, me sempre con materiali, poveri e scadenti, se è vero che da quando me lo ricordo io e se lo ricorda mio padre, è sempre stato decadente.
Tuttora, se allunghi la mano verso qualsiasi punto dei muri di cinta, ti puoi portare a casa senza fatica un pezzo, di questa inusitata opera dell’uomo.
Al centro del Palmintelli si trova un campo di calcio in terra battuta (l’erba in questa parte della Sicilia, non sappiamo neanche cosa sia), tanto che come in una singolare rappresentazione mitologica, i calciatori sono circondati da un’aurea di polvere, dalle scarpe in su, che direste soprannaturale, per tutta la durata della partita
La prima volta che andai al Palmintelli avrò avuto sei anni: si giocava la Coppa Amicizia, un torneo di corporazioni, dove gli impiegati delle Poste sfidavano quelli della Polizia, quelli dell’Enel i dipendenti della Provincia… e così via…
Ci sono padri che portano i figli a vedere per la prima volta una partita importante, mio padre mi portò a vedere la Coppa Amicizia.
Si respirava un’aria particolare, per me bambino, come se qualcosa di veramente grosso dovesse succedere da un momento all’altro, anche se si giocava solo la Coppa Amicizia.
Probabilmente, avrei potuto pensare, sarebbe potuta partire la Rivoluzione dal Palmintelli, tanta era l’agitazione, l’esaltazione di animi, l’aria sediziosa e virile che se ne respirava.
Crebbi.
Scoprii che esisteva una squadra di calcio nella mia città: la Nissa.
Per vedere la Nissa bisognava pagare; ed allora imparai prima ad arrampicarmi su di un albero sulla Montagnola sopra lo stadio, presa d’assalto da parassiti come me muniti di radiolina.
Poi a chiedere agli sconosciuti il permesso di fingermi figlio loro, per entrare gratis.
Negli anni a seguire, mio padre capì e mi dava i soldi per entrare.
Il calcio ha dietro tutto un feticismo che non si può spiegare.
Conservavo religiosamente (e ne conservo vivido nella memoria il ricordo) tutti i biglietti delle partite, la sciarpa, i nomi dei giocatori, gli articoli che scrivevo come immaginario inviato sportivo.
Era tutto una visione, un rito, una magia.
Il campionato 1982/83 finì male.
Retrocessi e poi ripescati, ma dalla memoria recupero i nomi di alcuni giocatori, come di divinità greche, stagliatesi nella mia memoria, ad imperituro ricordo di emozioni, colori e sapori che non proverò più: Morreale, Tomaselli, Puma, Indelicato, Mormile, Moscatiello, il bomber Castellucci erano per me l’equivalente di Paul Newman o Robert Redford.
Se ne incontravo uno per strada tremavo.
E poi la vittoria del campionato di Interregionale.
I 3 anni tribolatissimi in Serie C2.
Andavo al Campo Sportivo con un’ora d’anticipo.
Uscivo di casa prima della frutta, sciarpa al collo e tutta l’urgenza di chi ha qualcosa di davvero importante da fare.
Tante volte trovavo lo Stadio chiuso tanto era presto.
Altre volte non incontravo neanche una persona nel mio tragitto fino all’entrata della Gradinata, perché chi cazzo volete incontrare alle 2 del pomeriggio di una normale domenica di paese?
Eppure sognavo.
Quelle volte che arrivavo un po’ in ritardo e sentivo da lontano i cori dello Stadio, mi salivano i brividi a fior di pelle e prendevo a correre, per ridurre il tempo di assenza dalla bolgia infernale, da quel rito immensamente, maschile, romantico e nevrotico che è il calcio.
E poi fremevo.
Fremevo nell’attesa dell’entrata in campo delle squadre.
Fremevo quando vedevo la sagoma del capitano e l’arbitro uscire dagli spogliatoi.
Fremevo quando partiva il primo fumogeno e tutti ci si bardava la bocca, in preda ad un odore pestilenziale e meraviglioso.
Fremevo quando vedevo le squadre allineate a metà campo e dopo il fischio salutare la curva.
Ritualità e teatro.
Il calcio era rito e rappresentazione ecumenica di quello che nelle platee accademiche potrebbe chiamarsi Storia.
Fremevo e fumavo.
Si, fumavo le Marlboro, i sigari esalati dalle mani delle altre persone, come se fossi io ad averli tra le mani.
La sigaretta non è sigaretta, come lo è allo Stadio: allo Stadio la sigaretta è Wagner, poesia, amore, jazz.
Tutto è mito e tu sei il più stupido puntino dell’Universo, parte però di quella massa di gente informe e solidale che è la Curva.
La Curva da noi non esisteva.
Il Palmintelli è un rettangolo, da un lato addossato, come dicevo, al tribunale, da un altro lato con una piccola tribunetta di tre file chiamata Prato (chiamare prato tre gradini di pietra vi fa intendere la confusione semantica che esiste nell’entroterra siciliano a riguardo di tutto ciò che è vegetazione…).
Il tifo organizzato allora stava nella gradinata.
7 file di gradini di pietra, parallele al lato lungo del campo di gioco e di fronte alla tribuna.
Le Brigate Gradinata si chiamavano.
Oggi fa ridere, ma era una cosa maledettamente seria all’epoca.
Per me poi che avevo 10/11 anni… sarei morto per le Brigate Gradinata.
Ecco: le immagini sporche che mi riaffiorano tra i capelli, come il sebo abbondante che mi riempie la cute stressata di adesso (brutta immagine lo so…) sono potenzialmente infinite.
Il calcio è cresciuto, il calcio è cambiato… si potrebbero dare mille argomentazioni, tutte allo stesso modo giuste, tutte allo stesso modo sbagliate, per condannare questo fenomeno, marcio, malato, corrotto.
Ma pensare di chiudere, pensare di chiudere gli stadi, di chiudere il campionato, di chiudere quel mondo che in maniera disperata si aggrappa a piccoli sogni, di eroi in mutande, di adolescenti patinati e di speranze da coltivare, è come pensare di chiudere la vita.
Il calcio, in questi 100 anni è stato molto di più che un semplice sport.
Per molti è stato una casa, per altri uno spazio di libertà, per altri ancora l’unico modo per sentirsi parte di qualcosa che non fosse la tremenda solitudine delle periferie di oggi.
Non condannatelo appieno.
Non affrettatevi a giudicarlo ed a dargli l’estrema unzione.
Il calcio, per quanto marcio e lontano, fa parte della mia vita e della vostra società e gli stadi, per quanto ricettacoli di teste di cazzo, sono pieni di centinaia di migliaia di persone, che altro non vogliono se non abbracciare uno sconosciuto al novantesimo di una partita apparentemente irrimediabilmente perduta, provando per lui e per tutto ciò che lo circonda altro che non può non definirsi in altro modo se non: Amore.
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